La Meditazione è una pratica antica e trasversale a tutte le tradizioni sapienziali che si sono succedute, o alternate, attraverso i secoli e i continenti, con lo scopo di perseguire le finalità più essenziali della Vita Umana, le quali confluiscono, in estrema sintesi, nel concetto di Autorealizzazione.
Il Fine Autorealizzativo che si persegue con la Meditazione è tuttavia molto distante dalla concezione, tipicamente occidentale, di una realizzazione intesa come massima espressione della propria personalità, in termini professionali, sociali, socio-familiari, fisici o puramente estetici.
Appurato che il fine primario dello YOGA è favorire il superamento dell’attività mentale ordinaria, valorizzando contestualmente le facoltà cognitive intrinseche alla Natura Umana, la Meditazione rappresenta dunque la disciplina yogica più diretta per indurre cambiamenti funzionali dell’attività mentale, e favorire l’accesso a livelli di coscienza diversi dallo stato abituale di veglia.
All’interno della tradizionale suddivisione nei diversi approcci disciplinari, la tipologia di YOGA maggiormente incentrata sulla meditazione è il Rāja-Yoga, la cui Finalità Esperienziale si sintetizza nella formula citta vritta nirodha (letteralmente tradotto: calmare le fluttuazioni mentali) enunciata da Patanjali nel primo capitolo degli Yoga Sutra, per indicare lo stato di quiete estatica (Nirodha) cui si può giungere placando le fluttuazioni (vritti) della mente (citta).
Se il Nirodha rappresenta il più alto livello coscienziale di attenzione focalizzata e costante, raggiungibile tramite l’acquisizione della piena padronanza rispetto alle dimensioni inferiori della mente, il livello più basso è, al contrario, paragonabile ad una scimmia ubriaca che balza di ramo in ramo: pensieri, emozioni e sensazioni appaiono e scompaiono in rapida successione[1].
Il termine sanscrito Nirodha indica dunque il “totale assorbimento mentale” entro il focus attentivo di un’unica attività, ed implica pertanto la contestuale assenza di qualsiasi altro movimento intellettivo che possa costituire una distrazione.
Lungo l’ottuplice sentiero (Ashtanga) indicato da Patanjali negli Yoga Sutra, attraverso cui si rende possibile il perseguimento dell’Autorealizzazione, le tre fasi che coincidono con lo sviluppo della meditazione sono il Pratyahara, il Dharana e il Dhyana, conseguenti ai primi quattro principi, Yama, Niyama, Asana, Pranayama, e funzionali al raggiungimento dello stadio finale, il Samadhi.
Il Pratyahara si pratica distogliendo l’attenzione dagli stimoli ambientali e dalle sensazioni corporee, preferibilmente mantenendo il focus attentivo sul ritmo del proprio respiro, mentre nello stadio successivo, il Dharana, la concentrazione si focalizza su un unico oggetto, idea, argomento o compito, annientando il disordine mentale.
Il successivo stadio, Dhyana origina quando la concentrazione raggiunta durante il Dharana assume una continuità naturale e la coscienza si espande dissolvendo i confini tra corpo, mente e respiro, come tra l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione.
L’ottavo ed ultimo stadio del percorso yogico è il Samadhi, all’interno del quale si sintetizza il culmine dell’esperienza meditativa, e in cui alla sospensione delle percezioni sensoriali si associa un elemento di trascendenza che rende complessa qualunque sintesi descrittiva.
La meditazione propriamente detta ha inizio quando abbiamo calmato i pensieri e le emozioni. E’ uno stato di intensa consapevolezza interiore, nel quale la mente non è più impegnata ad arrovellarsi sui progetti e i problemi che la vita incessantemente ci riserva, ma è invece completamente assorbita nell’esperienza supercosciente. In senso più ampio, si può anche dire che la meditazione è qualsiasi pratica che abbia come meta finale la consapevolezza supercosciente [2].
Nella seconda edizione del Manuale intitolato Psicologia, lo Psicologo J.M. Darley introduce il concetto di meditazione nella sezione dedicata agli stati alterati di coscienza definendola un metodo di rilassamento in cui una persona, dirigendo l’attenzione su un unico stimolo, invariabile o ripetitivo, può limitare la recezione di stimoli multipli. Secondo la descrizione di Darley (1993), la pratica della meditazione può dunque creare uno stato di armonia tra l’individuo e l’ambiente circostante, favorendo una sensazione di “espansione della coscienza”.
La tradizionale visione yogica confluisce spontaneamente nella concezione psicologica della tripartizione coscienziale, resa popolare da S. Freud, secondo cui ognuno dei tre livelli in cui la coscienza umana si articola è naturalmente esperibile dal singolo individuo, in modalità più o meno consapevoli.
Da tale prospettiva, la totalità della coscienza è dunque costituita in misura ridotta dal livello “conscio”, il quale coincide con lo stato di veglia abituale, mentre il livello “subconscio” ne rappresenta la parte nascosta, spesso dominante, che si rende percepibile a tratti durante l’attività onirica, influenzando altresì il comportamento individuale durante la quotidianità, nonché l’atteggiamento attitudinale verso le dinamiche che scandiscono la vita.
Il subconscio è come un immenso oceano, con i suoi fondali di montagne, vallate e vaste pianure. La consapevolezza cosciente emerge da questo oceano come una piccola isola; invisibile al suo abitante è l’immensa regione subacquea che la circonda: le infinite abitudini, tendenze e sensazioni indistinte che giacciono sotto la mente conscia e rappresentano una zona più vaga, nondimeno molto reale, della nostra consapevolezza totale. (Kriyananda, 2002)
Il terzo livello di coscienza esperibile è il “supercosciente”, il quale rappresenta un grado molto elevato di consapevolezza, la cui collocazione “al di sopra” dello stato ordinario ed abituale di coscienza si evince già dalla radice etimologica super (dal latino, sopra). E’ il livello da cui originano le intuizioni profonde, le ispirazioni e la comprensione più autentica.
La supercoscienza è il regno dell’autentica intuizione. E’ qui che sperimentiamo l’estasi nei momenti di intensa di intensa preghiera o di elevazione interiore, quando l’irrequietudine dell’ego è stata per un attimo domata. La mente conscia, che dipende dall’intelletto, cerca soluzioni razionali ai suoi problemi. La mente subconscia influenza l’intelletto sollecitandolo con sentimenti o emozioni profondamente radicati, con modelli abituali di comportamento e con tendenze innate. Le abitudini dannose anche se difficili da bandire dalla mente, possono essere ricondotte entro canali positivi attraverso sforzi coscienti e ripetuti.[3]
La pratica della meditazione consente la sintonizzazione sul livello di coscienza denominato supercoscienza, attraverso la sospensione delle stesse attività cognitive e metacognitive che ne risulteranno successivamente potenziate, e l’esercizio di un atteggiamento ricettivo entro cui diventa possibile porsi in ascolto, anche sul piano emozionale, di intuizioni profonde ed elevate.
La verità deve essere percepita, in quella tranquilla consapevolezza che è la supercoscienza. La meditazione non è creare delle risposte: è percepirle o riceverle. E’ questo il segreto della creatività. (Kriyananda, 1996)
Attualmente, la possibilità di rilevare e misurare in laboratorio l’attività cerebrale associata ai diversi stati di coscienza, grazie all’impiego di una specifica varietà strumentistica, si pone quale sostegno fondamentale rispetto ad una valutazione empirica delle potenzialità insite nella meditazione. Attraverso le registrazioni di specifiche attività fisiologiche è quindi evidenziabile lo stato di profondo rilassamento psicofisico che la meditazione induce.
Il tracciato grafico di linee sinusoidali prodotto dal segnale EEG (elettroencefalogramma), riflette la tipologia di onde cerebrali associate ai diversi stati di coscienza, evidenziandone la velocità o frequenza, e la potenza o ampiezza. Le onde cerebrali sono infatti caratterizzate dal parametro della frequenza degli impulsi elettrici, la quale è misurata in cicli per secondo (cps o HZ), e dal parametro dell’ampiezza, che si riproduce graficamente nella morfologia dell’onda, e che ne definisce la potenza.
Le quattro tipologie di onde cerebrali, corrispondenti dunque a specifici livelli coscienziali, sono: Beta, Alfa, Theta e Delta.
Gli studi inaugurali e pionieristici di Benson e Wallace (1972), descritti nell’articolo The physiology of meditation (1995) hanno evidenziato significative variazioni nel segnale EEG durante la pratica della meditazione, che Wallace definisce stato di veglia ipometabolico, rilevando una netta prevalenza di attività alfa durante la pratica della meditazione, integrate da sporadiche attività theta e rare comparse di onde delta, le quali apparivano tuttavia solo in individui con esperienza consolidata nella disciplina meditativa.
A sostegno di ciò, i ricercatori Kasamatsu & Hirai, nell’articolo An electroencephalographic study on the Zen meditation (1996), hanno evidenziato una netta predominanza di onde theta nel segnale EEG di un gruppo di monaci, esperti praticanti di meditazione zen.
Caratteristiche peculiari della meditazione sono, infatti, sia la sincronizzazione delle attività dei due emisferi cerebrali, indicante una sinergia sincronica tra gli emisferi destro e sinistro, sia una prevalenza di onde alfa in presenza variabile di attività theta, coincidente con livelli di coscienza profondamente rilassati e creativi. Nello stato di veglia abituale, caratterizzato da attività beta, i due emisferi cerebrali sono invece desincronizzati, e si trovano quindi in una condizione ritenuta funzionale per lo svolgimento di attività riferibili alle specifiche facoltà sottese all’emisfero destro o sinistro.
Al contrario, durante lo stato di rilassamento profondo, l’attività elettrica cerebrale risulta diffusa in tutto lo scalpo.
Innumerevoli studi convergono nell’evidenziare come la sincronizzazione tra i due emisferi cerebrali si associ a stati emozionali elevati, a condizioni di benessere psicofisico e altamente performanti, mentre la desincronizzazione emisferica, seppur funzionale all’espletamento di specifiche attività, possa correlare con stress ed emozioni negative.
All’interno di una visione ampliamente condivisa nel panorama psicologico e accademico degli anni ’70 e ’80 la meditazione viene, inoltre, accostata concettualmente ad alcune forme di autoipnosi, rispetto alle quali mantiene tuttavia alcune sostanziali differenze, sintetizzabili nell’assenza di “scopo”, e nella mancanza degli input forniti a fini suggestivi, che sono invece caratteristici delle diverse forme di induzione ipnotica.
Infatti, molte persone che, sulla base delle consuete tecniche di misurazioni non risultano ipnotizzabili, riescono tuttavia ad imparare facilmente la meditazione (Morse, 1977).
La focalizzazione dell’attenzione su un unico oggetto o idea costituisce il trait d’uniòn delle diverse, innumerevoli, forme di meditazione, ognuna delle quali sviluppa modi caratteristici, funzionali al relativo perseguimento.
L’oggetto dell’attenzione può essere dunque il respiro, un’immagine, un suono o una formula verbale reiterata mentalmente (mantra), o altri elementi su cui focalizzare la concentrazione mentale.
La meditazione consiste quindi, essenzialmente, nel raggiungere lo stato di concentrazione, e nel successivo mantenimento, o ripristino privo di eccessive forzature, all’insorgere delle distrazioni mentali o ambientali.
Tale semplice procedura è stata storicamente attuata, sistematizzata, tramandata e divulgata, in una variegata pluralità di culture, perseguendo la finalità, ampia ed indefinita, di realizzare i cosiddetti stati alterati di coscienza, in un modo percepito di solito come profondamente benefico. (Darley, 1993)
Lo stato mentale perseguibile attraverso la meditazione, seppur spesso definito “alterato” in letteratura, coincide in realtà con una condizione di coscienza naturale, in cui la quiete, il vuoto e l’unità esistenziali si rendono percepibili grazie alla riduzione della sensibilità agli stimoli esterni, la quale svolge, a sua volta, un’azione amplificatoria sulla percezione degli stimoli interni.
La meditazione favorisce dunque la presa di contatto con se stessi e con la realtà, innescando un bisogno di conoscenza che non riesce a colmarsi entro i parametri ed i confini della logica, del linguaggio e della razionalità, dal quale si genera, anzitutto, la specifica facoltà cognitiva superiore che coincide con l’osservazione silente e distaccata di sé e del mondo, alleggerita dagli impulsi di giudizio e di contagio mentale, seppure fertile e feconda ad un tempo di stati emozionali elevati.
Riferimenti:
[1] Desikachar T.K.V. (1995), Il Cuore dello Yoga, Tr. It. Roma, Ubaldini, 1997. Cit. pag. 148
[2] Swami Kriyananda, Io amo meditare, Assisi (PG), Ananda Edizioni, 2002, cit. pag. 25.
[3] Swami Kriyananda, Io amo meditare, Assisi (PG), Ananda Edizioni, 2002, cit. pag. 28.
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