Secondo la descrizione fornita nella quinta edizione del DSM – 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, 2014), il costrutto di Ansia e quello di Paura sono strettamente correlati alla percezione di una minaccia, seppure in associazione a diversi riferimenti temporali.
La paura è infatti considerata la risposta emotiva ad una minaccia imminente, reale o percepita, mentre l’ansia è l’anticipazione di una minaccia futura. Naturalmente questi due stati si sovrappongono, ma sono anche differenti: la paura è più spesso associata a picchi di attivazione autonomica necessaria alla lotta o alla fuga, a pensieri di pericolo immediato e a comportamenti di fuga, mentre l’ansia è più frequentemente associata alla tensione muscolare e alla vigilanza in preparazione al pericolo futuro e a comportamenti prudenti o di evitamento.[1]
Quando gli stati ansiosi si verificano con frequenza, in modalità eccessiva e disfunzionale, possono cronicizzare in una condizione clinica denominata disturbo d’ansia che, in forma generalizzata, è caratterizzata da una preoccupazione persistente ed eccessiva riguardante diversi ambiti, tra cui il rendimento lavorativo e scolastico, che l’individuo ha difficoltà a controllare. Inoltre l’individuo sperimenta sintomi fisici, tra cui irrequietezza o sensazioni di agitazione o tensione; facile affaticamento; difficoltà di concentrazione o vuoti di memoria; irritabilità; tensione muscolare; e disturbi del sonno.[2]
La psicologia contemporanea associa una pluralità di definizioni, cliniche e semantiche, all’Ansia, sia nelle sue forme patologiche sia nelle sue manifestazioni più lievi e ricorrenti, diversamente dalla visione yogica, secondo cui il costrutto di ansia sintetizza un particolare stato mentale che insorge insieme alla paura della separazione, della perdita o della rinuncia ad un particolare oggetto del desiderio.
Nell’ottica tradizionale dello YOGA, l’Ansia deriva dall’Attaccamento a quegli elementi esistenziali carichi di attributi semantici, che possono coincidere con beni, ruoli, mansioni, legami, persone, luoghi o ricordi.
Analogamente, gli stati ansiosi che scandiscono il delinearsi di prospettive sgradevoli o temute, come l’incombere di pesanti moli di lavoro o l’avvicinarsi di scadenze inderogabili, sono dunque, in una chiave di lettura yogica, altresì riconducibili ad una forma di attaccamento che si riferisce a costrutti, quali la libertà o la spensieratezza, e che può quindi condurre alla paura della relativa perdita o rinuncia.
Tuttavia, tali oggetti o costrutti con cui la mente intrattiene una relazione di attaccamento spesso mantengono la loro valenza di desiderabilità a livello inconscio, pertanto, l’individuo inconsapevole dell’alto valore semantico ad essi associato, nonostante risulti spesso in grado di riconoscere il proprio interesse, o affetto, verso beni e persone come la propria casa, automobile, o famiglia, non sospetta di convivere inconsciamente con la paura inerente alle relative possibilità di perdita, poiché tali figure non ricorrono nei suoi pensieri abituali, né reclamano particolari risorse attentive durante lo svolgersi della quotidianità.
L’insorgere di stati di ansia vaghi, diffusi, e tuttavia incalzanti, riferiti a circostanze poco definite, secondo il modello dello yoga integrale, è dunque dovuta all’inconsapevolezza dei propri oggetti di attaccamento. In tale scenario, la preoccupazione latente circa l’eventualità di doversene separare gioca un ruolo cruciale nel generare l’ansia esperita sul piano cosciente.
L’ansia diminuisce nella misura in cui si diviene più flessibili e psichicamente indipendenti dai beni e dalle persone. Le relazioni reciproche divengono molto più gratificanti quando sono scevre da sensi di assuefazione o dipendenze.[3]
La pratica della Meditazione yogica, analogamente alla terapia psicoanalitica, può favorire la presa di coscienza circa gli oggetti di attaccamento inconsci e, di conseguenza, innescare il processo di attenuazione o risoluzione degli stati ansiosi ad essi correlati.
L’acquisizione di consapevolezza circa l’esistenza, e l’entità, delle forme di attaccamento associate ad oggetti o figure della propria vita, ne agevola infatti l’elaborazione e, secondo modalità e tempistiche soggettive, il conseguente superamento, altresì riguardante l’ansia che ne deriva.
Nella terapia psicoanalitica, si utilizza la tecnica delle libere associazioni per mettere a fuoco i pensieri più autentici in riferimento ad una lunga sequenza di immagini e concetti.
Ascoltando la catena di associazioni verbalizzate dal paziente in risposta agli input forniti dal terapeuta, si possono rilevare, sporadicamente, arresti o esitazioni che denunciano un cambiamento di attenzione e coinvolgimento del paziente in riferimento ad un pensiero, nella forma di una sorta ‘resistenza’ al flusso delle associazioni, in grado dunque di rivelare le sedi inconsce del suo attaccamento. Il conseguente arresto all’ascolto del flusso delle libere associazioni può essere rilevata sia dal terapeuta che dal paziente, pertanto, diventa possibile conoscere la natura degli attaccamenti dell’ego e, quindi, mettere in gioco opportune strategie risolutive. Ai fini del mantenimento della propria posizione neutrale e obiettiva, il terapeuta si pone in un ruolo di testimone, richiamando, se necessario, l’attenzione del paziente sulle sue eventuali evasioni dal ruolo di osservatore e sul suo conseguente coinvolgimento nelle dinamiche psichiche ad esse associate.
Nella meditazione yogica, si utilizza un’analoga strategia di osservazione del flusso degli eventi mentali, al fine di sospendere le modificazioni o fluttuazioni (vritti) della mente (citta) attraverso il perseguimento di un particolare stato psichico di consapevolezza (nirodha).
Diversamente dalla tecnica psicoanalitica delle libere associazioni, la meditazione si attua in contesto privato e senza interventi altrui, pertanto la relativa pratica richiede una motivazione ed un livello di volontà consolidati.
Nel corso della meditazione come già nell’approccio psicoanalitico, il flusso di pensieri ed immagini mentali subisce un arresto in coincidenza di quegli stimoli sensoriali, ricordi ed impulsi che, risultando particolarmente coinvolgenti, segnalano probabili forme di attaccamento inconsce.
Lo yogi che riesce a conservare la propria posizione di osservatore, attraverso un atteggiamento di distacco rispetto a tali dinamiche, diventa altresì in grado di conoscerne e comprenderne le caratteristiche intrinseche, tipiche dei livelli inferiori di attività mentali, favorendone la successiva armonizzazione ed integrazione cosciente.
L’obiettivo, sia della terapia psicanalitica sia della meditazione, è dunque quello di evitare il coinvolgimento con i pensieri che affluiscono alla coscienza, sostituendo un atteggiamento di lotta nei loro confronti con quello dell’osservazione vigile e distaccata.
Nello yoga, allorchè il senso dell’ Io si espande e si sviluppa un Buddhi più distaccato ed obbiettivo, comincia a venir meno l’invischiamento negli attaccamenti. E ciò ha per riflesso una diminuzione dell’ansia. Dal momento che la meditazione è un metodo per ridurre l’attaccamento ai pensieri ed agli oggetti, ci si può aspettare che le persone impegnate nella meditazione manifestino in qualche modo, almeno temporaneamente, una diminuzione dell’ansia.[4]
Innumerevoli lavori di ricerca, condotti nel corso degli ultimi decenni, hanno evidenziato la sovrapponibilità tra le risposte psicofisiologiche conseguenti a pratiche meditative e quelle associate agli stati di calma mentale, pressoché opposti agli indici rilevabili durante le reazioni di “lotta o fuga” che caratterizzano invece i quadri clinici di disturbi d’ansia, così come stati ansiosi più lievi e sporadici.
Riferimenti:
[1] DSM – 5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, M. Biondi, Cortina Raffaello, 2014, pag. 217
[2] DSM – 5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, M. Biondi, Cortina Raffaello, 2014, pag. 218
[3] Swami Rama, R. Ballentine, Swami Ajaya, Yoga e Psicoterapia, Roma, Mediterranee, 2003, pag. 156-157
[4] Swami Rama, R. Ballentine, Swami Ajaya, Yoga e Psicoterapia, Roma, Mediterranee, 2003, pag. 157-158
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