La nascita della Psicologia come scienza indipendente si colloca nel contesto europeo di fine ’800, in seguito ad una sequenza di conquiste scientifiche e tecnologiche sufficientemente rivoluzionarie da favorire l’emergere di un interesse rivolto agli aspetti poco osservabili della natura umana, e sul relativo funzionamento cognitivo, emozionale, e comportamentale.
Nel corso della sua articolata evoluzione, spinta dal bisogno di indagare la vita interiore nella sua totalità, la Psicologia si è quindi avvalsa molteplici contributi disciplinari, alternando l’utilizzo del metodo empirico, proprio delle scienze naturali ed ambientali, con incursioni esplorative in territori culturali stranieri, spesso intessuti di elementi simbolici, ritualistici, e artistici, quali le tradizioni dei popoli nativi d’oltreoceano o del sapere orientale.
Lo YOGA ha richiamato particolare interesse nella psicologia occidentale in quanto disciplina poggiante su fondamenta antiche e resistenti ai secoli, incentrata sull’osservazione della sfera psichica umana attraverso la persecuzione di un controllo sia fisico che mentale, e articolata in un insieme di pratiche derivanti da una scrupolosa opera di sistematizzazione.
L’attenzione della Psicologia moderna verso i modelli teorici, pratici e metodologici dello YOGA, risponde al bisogno vitale di confronto e integrazione tra diversi sistemi di conoscenza evolutivi, essenzialmente orientati verso il superamento dello stato di “ignoranza” (in sanscrito Avidya), nelle sue molteplici accezioni e conseguenze.
Oltre le apparenti distanze tra i codici del linguaggio scientifico e la complessa simbologia orientale, i principi sviluppati dagli antichi testi yogici rivelano, alla luce di studi scrupolosi, sia l’impiego puntuale di criteri rigorosi, sia evidenti parallelismi contenutistici con la cultura occidentale, a partire dalle analogie riscontrabili nelle basi filosofiche dei due diversi sistemi.
Infatti, sebbene la nascita formale della psicologia venga collocata nel 1879, in associazione all’apertura del primo laboratorio sperimentale ad opera di Wundt (1832 – 1920), presso l’Università di Lipsia, molti dei suoi attuali oggetti di studio sono stati introdotti e sviscerati dalla filosofia greca, la quale presenta, altresì, chiari tratti di continuità con la tradizione Vedanta [1], come evidenziano le emblematiche analogie riscontrabili tra la Visione Platonica dell’Anima, la seconda topica freudiana, e l’allegoria epica della Bhagavad Gita.
Infatti, la concezione della Mente-Anima quale sede della coscienza e della ragione, si afferma nella cultura occidentale nel V secolo a.C attraverso la visione di Platone, la cui filosofia assume i contorni di una dottrina psicologica, concernente la natura dell’anima nella sua complessità.
Attraverso il mito del carro e dell’auriga, Platone ritrae una visione dell’anima composta da tre elementi notoriamente simbolici: l’auriga, che impersonifica la ragione, il cavallo bianco, agile, snello e ubbidiente, che rappresenta l’irrazionalità umana nella sua forma più elevata e spirituale, e il cavallo nero, tozzo, ribelle e inetto, che rappresenta le passioni più infime legate all’istintualità corporea.
L’auriga, che ritrae l’elemento razionale, tiene i due cavalli per le briglie ed ha la funzione di guida del carro che, tuttavia, si muove solo grazie ai cavalli, rappresentanti le passioni e l’irrazionalità, sia in chiave positiva che negativa. L’auriga deve guidare entrambe i cavalli verso l’alto, tenendo a bada il nero e incitando il bianco, poiché il carro deve raggiungere l’Iperuranio, il luogo metafisico in cui l’anima può contemplare ed assorbire la sapienza delle idee che vi risiedono.
L’efficace metafora platonica insegna che istintualità e passioni sono funzionali per l’azione e per il movimento vitale, ma che il governo dell’anima spetta esclusivamente all’auriga, in quanto dotata di un sapere superiore.
Allo stesso tempo, la Visione dell’Anima quale Essenza Immortale in cui ragione e istinti passionali coesistono, evidenzia elementi precursori della concezione psichica elaborata nel 1922 dal padre della psicoanalisi, Sigmund Freud [2].
Nell’opera L’Io e l’Es, S. Freud individua le tre istanze dell’apparato psichico, che denomina Io, Es e Super Io, e che spiega attraverso la metaforica immagine della relazione tra cavaliere e destriero, secondo la quale l’Io è rappresentato dal cavaliere che deve domare la prepotente e ostinata forza del cavallo, simbolo a sua volta del Es, la componente istintuale da cui originano le passioni e gli impulsi sessuali, governata dal principio del piacere fintanto che non sarà disciplinata dalla ragione. Il Super io, responsabile morale, rappresenta, infine, il padre dell’auriga o cavaliere, ed è ritraibile dietro di lui, nella posizione più adatta ad offrirgli la propria guida, sia a livello conscio che subliminale.
Analogamente, in uno dei tre testi più antichi introduttivi dello YOGA, parte dell’antica raccolta sapienziale dei Veda, la Bhagavad Gita, si ritrova l’immagine simbolica del carro, associato al mitico protagonista del poema epico, Arjuna, l’eroe guerriero che percorre il sacro campo di battaglia su cui si fronteggiano gli eserciti avversari. In piedi sul suo carro dorato, Arjuna è guidato dal divino auriga, Krishna, che tiene strette le briglie, alle quali sono legati cinque cavalli. Arjuna, percepisce la presenza del maestro-guida e si affida a lui, in previsione della lotta tra le due fazioni, rappresentanti le forze opposte del bene e del male.
L’allegoria epica indiana rimanda dunque nitidamente a simboli di platonica memoria, come agli elementi della topica freudiana: il carro è lo strumento fisico che rende possibile l’azione sul terreno della vita, la divina auriga impersonifica la ragione, l’intelligenza superiore insita nell’ordine universale, i cinque cavalli rappresentano i cinque sensi e sono l’elemento che permette l’azione, il movimento e l’interazione con la realtà, mentre le briglie ritraggono la mente, quale strumento attraverso cui l’intelligenza universale, superiore, può assumere ed esercitare controllo sui sensi.
Arjuna è, infine, l’individuo forgiatosi attraverso la disciplina yogica, consapevole, nella sua dimensione stoica di guerriero, della dualità che caratterizza il sacro campo della vita, e capace di arrendersi alla volontà divina superiore permettendole di agire attraverso di sé.
Il carro, quando guidato dalla ragione secondo il mito platonico, o aggiogato all’Essenza divina illustrata dalla filosofia vedica, può dunque trasportare l’uomo nella giusta direzione, innalzandolo verso la meta finale e liberatoria, che coincide con l’ideale metafisico descritto da Platone, così come con la dimensione unitaria della tradizione yogica, il Samadhi.
Tuttavia, il costante e tradizionale anelito yogico verso il Samadhi, l’ottavo stadio descritto da Patanjali negli Yoga Sutra, oltre a coincidere con il più alto livello di coscienza esperibile, rappresenta il grande elemento di distacco tra la psicologia occidentale, nelle sue molteplici espressioni, e lo yoga.
La psicologia occidentale tende infatti, pressoché all’unanimità, a considerare la formazione di un solido e strutturato senso dell’Io quale importante traguardo evolutivo, e culmine dello sviluppo individuale. La psicologia yogica, al contrario, rileva nello stesso senso dell’Io una componente illusoria, riconducibile alla percezione dell’individualità come condizione di ignoranza (avidya) relativamente al senso di unità, cui tende la pratica dello yoga.
Uno stato evolutivo in cui si è raggiunto un senso dell’Io stabile ed integrato, secondo i criteri psicologici occidentali, è pertanto, lungi dall’ideale di realizzazione yogico, nel quale sono sintetizzate potenzialità di crescita ed espressione vitale che si non prefiggono solo di valorizzare l’ego, bensì di trascenderne la limitatezza.
Lo stesso Carl Gustav Jung (1875 – 1961), pur essendo stato tra i primi psicoanalisti ad aver concepito lo yoga quale espressione della psicologia dell’inconscio, mantiene una posizione definita e cauta rispetto al suo estremo elemento trascendentale, che corrisponde allo stato di Samadhi, interpretandolo come perdita di coscienza anziché come suo massimo ampliamento.
Quale studioso del ricco simbolismo delle tradizioni orientali, Jung ritrova nella filosofia yogica gli elementi caratterizzanti il modello di Individuazione, coincidente con il processo di formazione e di caratterizzazione del singolo individuo, e in con lo sviluppo dell’individuo psicologico come essere unico, distinto dalla psicologia collettiva. L’Individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale (Jung, 1920).
Analogamente al processo trasformativo che percorre consapevolmente il praticante di YOGA, il percorso di Individuazione junghiana si espleta in tappe consequenziali, corrispondenti a passaggi evolutivi durante i quali avviene la fusione tra gli elementi consci ed inconsci, razionali ed irrazionali, in uno stato di totalità ed armonia.
Tuttavia, diversamente dalla psicologia yogica che persegue la finalità dell’unione con una coscienza superiore, universale e assoluta, esperibile attraverso la disidentificazione dell’io dagli elementi corporeo e mentale, Jung individua il culmine del processo di Individuazione nell’incontro con l’archetipo del Sé, che rappresenta la più alta dimensione conoscibile, e coincide con lo stesso l’individuo nel suo stato più completo e integro.
A questo stadio il Sé e l’Io sono allineati, l’interazione tra inconscio e conscio è fluida e continua, e la persona ha acquisito la completa consapevolezza sia circa il proprio potenziale che circa i propri limiti, oltre che riguardo il suo scopo nel mondo.
Jung ritrova le tappe dell’Individuazione negli stadi evolutivi della disciplina yogica, di cui rifiuta solo l’elemento metafisico, che ritiene eccessivamente impersonale per le esigenze e le possibilità dell’individuo del suo tempo.
Nelle sue frequenti incursioni all’interno della spiritualità orientale e della cultura yogica, C.G. Jung mantiene inoltre un atteggiamento di grande imparzialità circa le possibili interazioni con la società occidentale, riconoscendo da un lato il grande potenziale evolutivo dello YOGA, nel cui metodo individua un’espressione olistica dello sviluppo umano, e dall’altro, uno scarso potenziale di comprensione da parte della cultura occidentale, che percepisce drasticamente orientata verso l’opposta tendenza di allontanamento dalla propria natura intrinseca.
A partire dalla pratica fisica delle asana, Jung individua un elemento di igiene fisiologica decisamente superiore alla “ginnastica”, poiché non limitata ad una forma di meccanicismo anatomico, bensì estesa ai relativi significati e fini filosofici, in grado di favorire il contatto tra corpo e spirito, analogamente e simultaneamente all’esercizio del pranayama, in cui il prana è sia respiro individuale che energia cosmica, in una vivente interezza che nessuna tecnica potrà mai produrre. (Jung, 1936)
L’indiano non può dimenticare né il corpo né lo spirito; l’europeo dimentica sempre l’uno o l’altro. E’ vero che questo gli ha permesso di conquistare il mondo mentre l’indiano non l’ha fatto. L’indiano non soltanto conosce la sua natura; sa anche fino a che punto sia natura egli stesso. L’europeo invece ha una scienza della natura e stupisce per la sua ignoranza della propria natura, della natura in lui. Per l’indiano è buona cosa conoscere un metodo che lo aiuti a dominare, all’interno e all’esterno, la potenza suprema della natura. Per l’europeo è un gran nocumento finire di opprimere la sua natura già mutilata, facendone un docile robot. Si dice che lo yogi sia capace di muovere le montagne, benché questo fatto sia difficilmente dimostrabile. Il suo potere si muove entro confini accettabili dall’ambiente circostante. [3]
Aldilà della critica alla tendenza occidentale, accentuata nel corrispondente periodo storico del primo ‘900, di concentrare sforzi ed interessi evolutivi verso l’ambiente esterno anziché verso la propria natura, Jung evidenzia il fondamentale principio yogico di corrispondenza tra la natura interiore ed esteriore dell’essere umano, e la relativa finalità di armonizzazione tra le due, attraverso la pratica consapevole della disciplina. Inoltre, alludendo alle facoltà straordinarie attribuite agli yogi dalla cultura di massa, avverte l’importanza di sottolinearne sia la mancanza di evidenze, sia la scarsa importanza ai fini di un efficace comprensione del sistema yogico.
Parte dell’interesse del mondo occidentale nei confronti dello yoga, si è infatti alimentato, per un lungo periodo, più di una forma di recettività al sensazionalismo suscitato da imprese e prestazioni fuori dal comune, riconosciute a yogi esperti, che dall’opportunità di coniugare patrimoni conoscitivi diversi ma, auspicabilmente, complementari, perseguendo un’ideale di integrazione tra la conoscenza tecnologica e scientifica occidentale con l’esaustività della saggezza orientale.
Mircea Eliade, nel saggio Lo Yoga, fornisce un’anticipazione di quelli che, a posteriori, sono stati definiti “stati alterati di coscienza”:
L’asana, il pranayama e il dhyana sono giunti ad abolire, per lo meno durante il breve momento dell’esercizio considerato, la condizione umana. Completamente immobile, ritmando la respirazione, fissando lo sguardo e l’attenzione su un solo punto, lo yogin supera sperimentalmente la modalità profana dell’esistenza. Incomincia a divenire autonomo rispetto al Cosmo; le tensioni esterne non lo turbano più (avendo superato gli “opposti”, egli è ormai insensibile al freddo e al caldo, alla luce e all’oscurità, ecc.); l’attività sensoriale non lo proietta più all’esterno, verso gli oggetti dei sensi; il flusso psicomentale non subisce più violenze e non è più dominato dalle distrazioni, dagli automatismi e dalla memoria: ora è “concentrato”, “unificato”. [4]
Il termine sanscrito per definire le facoltà straordinarie acquisibili attraverso la pratica di una disciplina spirituale è siddhi [5], storicamente in grado di sollecitare l’attenzione della società occidentale nelle loro manifestazioni più sovraumane, quali l’annullamento di istinti come la fame e la sete, l’invisibilità del corpo, la levitazione, ed altri, ugualmente accolti con un atteggiamento di curiosità mista a scetticismo. Scrive Mircea Eliade:
Uno yogi è stato sempre considerato in India come un “mahasiddha”, un possessore di poteri occulti, un “mago”. La stessa storia spirituale dell’India rivela che questa opinione profana non è completamente erronea. In India il mago ha sempre avuto una parte, se non principale, almeno di notevole importanza. L’India non ha mai dimenticato che l’uomo può diventare, in determinate circostanze, “uomo-dio”, non ha mai potuto accettare l’attuale condizione umana, fatta di sofferenza, di impotenza e di precarietà.[6]
Attualmente, attraverso l’impiego di una strumentistica encefalografica e psicofisiologica di precisione, unitamente alla disponibilità di esperti praticanti di yoga, è possibile testare parte delle conoscenze acquisite nel corso di millenni, indagando e misurando le conformazioni strutturali e funzionali relative a particolari attività mentali, dette “stati alterati di coscienza”.
In particolare, il dialogo tra psicologia, neuroscienza, e meditazione ha subito un evoluzione decisiva negli ultimi decenni, intensificandosi esponenzialmente, a partire da un’incompatibilità iniziale dovuta alle, apparentemente insormontabili, distanze metodologiche e relazionali che caratterizzano le frange sociali dedite alla ricerca psichica in oriente ed in occidente.
Ci troviamo oggi al centro di un incremento, quantitativo e qualitativo, di studi scientifici incentrati sull’Efficacia terapeutica delle discipline yogiche nel trattamento di stati patologici, tra cui disturbi mentali di varia natura.
Basti pensare che, a partire dagli anni ’60 sono stati pubblicati oltre 3.000 studi solo sulla meditazione, oltre a circa 990 Clinical Trials in cui l’esercizio di discipline yogiche si è integrato all’interno di protocolli terapeutici ospedalieri e riabilitativi.
Alla luce della Convergenza tra i risultati di questi studi, in Termini di Riduzione di sintomi associati a Stati di Ansia, Depressione e Stress Cronico, le Potenzialità dell’Incontro Disciplinare tra Psicologia e YOGA appaiono in tutta la loro Evidenza scientifica, oltre a mantenere una comprovata Efficacia in Termini di Miglioramento della Qualità di Vita, e Benessere quotidiano.
Insieme alle relative finalità terapeutiche, infatti, sia la Tradizione Yogica sia la Scienza Psicologica costituiscono due Sistemi di Studio e Pratica volti alla Conoscenza e alla Padronanza di Sé, e quindi all’Affrancamento dalla Condizione di Avidya (ignoranza), oltre che alla Valorizzazione delle Risorse e Potenzialità insite nella Natura Umana.
Riferimenti:
[1] Sistema filosofico indiano delle Upanishad, tradotto letteralmente “la fine dei Veda”.
[2] Nell’opera L’Io e l’Es del 1922, Freud individua tre istanze psichiche che chiama “Io, Es e Super Io” (II topica), e non più “conscio, preconscio e inconscio” (I topica).
[3] C.G. Jung, La Saggezza Orientale, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, cit. pag. 37
[4] M. Eliade, Lo Yoga, BUR Biblioteca Universitaria, Rizzoli, 1999, cit. pag. 67
[5] Siddhi: termine sanscrito che significa potere spirituale; fonte: www.collinsdictionary.com
[6] M. Eliade, Lo Yoga, BUR Biblioteca Universitaria, Rizzoli, 1999, cit. pag. 93 – 94
Leggi anche:
Il Sistema a 8 livelli dell’Ashtanga YOGA
Genesi e Storia della Psicologia