Dal momento che la Meditazione è un metodo per ridurre l’attaccamento ai pensieri ed agli oggetti, ci si può aspettare che le persone impegnate nella meditazione manifestino in qualche modo, almeno temporaneamente, una diminuzione dell’Ansia.[1]
Innumerevoli lavori di ricerca, condotti nel corso degli ultimi decenni, hanno evidenziato la sovrapponibilità tra le risposte psicofisiologiche conseguenti a pratiche meditative e quelle associate agli stati di calma mentale, pressoché opposti agli indici rilevabili durante le reazioni di “lotta o fuga” che caratterizzano invece i quadri clinici di disturbi d’ansia, così come stati ansiosi più lievi e sporadici.
Tra gli studi inaugurali, e pionieristici, del folto filone finalizzato alla dimostrazione degli effetti della meditazione sugli stati ansiosi, la sperimentazione condotta da D. Goleman e G. Schwarts all’inizio degli anni ’70, evidenziò conclusioni successivamente condivise e ampliate da una pluralità di ricerche in ambito psicofisiologico.
La ricerca, condotta presso l’università di Harvard, coinvolse sessanta soggetti, di cui solo l’esatta metà era costituita da praticanti abituali di meditazione, diversamente dai restanti trenta partecipanti che non avevano mai praticato la meditazione.
Tutti i partecipanti furono sottoposti alla proiezione di un filmato ricco di contenuti cruenti, tratto da un documentario inerente alla sicurezza sul lavoro, costituito da sequenze di incidenti realistici e gravi, in buona parte culminanti in mutilazioni.
In seguito all’applicazione di due elettrodi sulla superficie cutanea, fu misurata la risposta psicogalvanica (GRS) di ciascuno, partendo dal presupposto che stati di ansia comportano un aumento della sudorazione che si traduce in un aumento di corrente elettrica tra gli elettrodi mentre, gli stati di rilassamento ne comportano una diminuzione.
Le rilevazioni degli indici psicofisiologici dei sessanta partecipanti, rilevarono una differenza netta tra i trenta praticanti abituali di meditazione, i cui indici evidenziavano sia una rapida attivazione dei parametri fisiologici di risposta al pericolo sia, a posteriori, il rapido ripristino dello stato di calma, e coloro che non avevano mai praticato meditazione, i cui indici risultavano, al contrario, soggetti a variazioni più lente, sia rispetto all’attivazione sia rispetto al rilassamento[2]:
non appena un incidente stava per accadere, i loro corpi si mobilitavano in quella che i fisiologi chiamano reazione di “lotta o fuga” per essere pronti ad affrontare l’evento stressante, così il loro ritmo cardiaco aumentava e cominciavano a sudare più dei non meditatori. Ma non appena l’incidente era passato, i meditatori si riprendevano meglio, i loro segnali di eccitamento corporeo calavano più rapidamente di quelli dei non meditatori; erano più rilassati quando i non meditatori continuavano a dare segni di tensione.” [3]
I risultati emersi da una pluralità di studi successivi sul rapporto tra Meditazione, Stress ed Ansia evidenziano una serie variazioni fisiologiche associate alla pratica della meditazione significativamente sovrapponibili, uniformi, e potenzialmente correlate con una diminuzione dell’attività sistema nervoso simpatico, il quale, in condizioni di stress, è in grado di attivare l’organismo (Darley,1993).
Tali variazioni corrispondono ad una diminuzione della sudorazione, un rallentamento del ritmo respiratorio, un minore consumo di ossigeno rispetto allo stato di coscienza ordinario (circa il 10 – 20% in meno) e, allo stesso tempo, una minore presenza di rifiuti metabolici nel torrente ematico.
La risultante fisiologica è dunque una condizione caratterizzata da un ritmo metabolico inferiore al normale.
(Fonte: Darley John M, Glucksberg Sam, Kinchla Ronald A. 1993, Psicologia, Bologna, Il Mulino, pag. 206)
Inoltre, analizzando l’attività elettrica cerebrale durante la meditazione attraverso l’utilizzo di strumentazione EEG (Elettroencefalogramma), si è riscontrata un’attività caratterizzata da onde alfa, la quale corrisponde allo stato di calma mentale e, in alcuni casi, si è rilevata la comparsa di onde theta, associata a produzioni immaginifiche e visualizzazioni.
Come le evidenze menzionate supportano i benefici della Meditazione sia sull’attività mentale, sia sul funzionamento metabolico, svariati studi scientifici sono in grado di sostenere i risultati positivi, in termini di incidenza degli stati ansiogeni, che derivano dalla pratica dello Yoga inteso nella sua accezione più ampia, che affianca la disciplina posturale (Asana) e quella respiratoria (Pranayama) all’esercizio meditativo.
Uno studio del 2007 (Streeter et al) condotto su un gruppo (sperimentale) di otto persone, e un gruppo di controllo composto da undici persone, ha evidenziato significative variazioni a livello neuroendocrino in correlazione alla pratica dello YOGA:
le otto persone costituenti il gruppo sperimentale, hanno accettato di essere sottoposti a risonanza magnetica, sia prima sia dopo la loro sessione quotidiana di YOGA,di 60 minuti.
I risultati hanno evidenziato un aumento del 27% dei livelli dell’acido gamma-aminobutirico (GABA) a seguito delle sessioni di YOGA, rispetto ai livelli rilevati prima della sessione di YOGA.
Gli undici soggetti costituenti il gruppo di controllo, sono invece stati intrattenuto con letture rilassanti di pari durata, senza presentare alcun aumento dei livelli di GABA.
Il GABA è uno dei neurotrasmettitori più importanti nel controllo degli stati emozionali, e svolge una funzione inibitoria relativamente a stati di sovraeccitazione nervosa, pertanto, come si ritiene che un’eventuale carenza possa favorire l’insorgere di stati ansiosi, un incremento può associarsi a stati di serenità e quiete mentali.
Il perseguimento di una progressiva risoluzione dell’ansia, attraverso la pratica dello YOGA, è dunque possibile associando l’approccio multidisciplinare della tradizione integrale, alla consapevolezza circa il ruolo cruciale che svolge il costrutto di attaccamento, quale rapporto illusorio e ingannevole tra l’individuo e gli oggetti dei suoi desideri.
Secondo la visione yogica infatti, il desiderio rappresenta l’attitudine generica ad uno stato di irrequietezza mentale anziché una condizione relativa ad oggetti specifici, pertanto, può essere risolvibile, anziché superabile, attraverso la progressiva conoscenza di sè e dei propri attaccamenti inconsci, anziché attraverso il raggiungimento di beni o posizioni.
La psicologia yogica considera infatti lo sviluppo individuale quale percorso evolutivo, eventualmente costellato da sporadiche fasi di arresto inconsapevole in cui l’individuo vive una sorta di “sospensione”, rispetto al naturale fluire lungo il suo processo di maturazione e realizzazione.
In tale ottica, i livelli di crescita e di consapevolezza raggiunti dal singolo risultano meno importanti rispetto all’atto del procedere in sé, poiché è durante i momenti di stasi che l’individuo tende ad intensificare i propri attaccamenti, coerenti e coincidenti con il livello di crescita in cui si verifica il blocco.
Ansia, paura e serenità sono situate lungo un percorso privo di interruzioni, e reciprocamente interconnesse. Diminuendo l’attaccamento, aumenta la capacità di osservazione e, quindi, la paura diventa più controllabile (Swami Rama, 2003).
Il modello yogico tradizionale descrive la risoluzione consapevole degli stati di attaccamento secondo una visione pressoché opposta rispetto a quella, tipicamente occidentale, che coincide con un atto di “rinuncia”, profilandola come l’unica soluzione possibile rispetto alla condizione di ansia ed equivalente dunque ad una “conquista” in termini di libertà personale:
Il non attaccamento è la padronanza di se stessi; è la libertà dal desiderio di ciò che si è visto o udito.[4]
La pratica dello YOGA integrale favorisce inoltre, parallelamente all’emersione dei propri oggetti di desiderio, il delinearsi di un’unità di intenti tra gli stessi, generando nuovi scenari di ordine ed armonia sullo sfondo delle cosiddette correnti contrastanti dei desideri dell’ego, espressione coniata da Paramhansa Yogananda per descrivere lo stato di conflitto interiore che i desideri generano nella maggior parte degli individui:
La gente desidera il successo ma teme lo sforzo necessario per ottenerlo; desidera la popolarità ma teme di esporsi, oppure ha, allo stesso tempo, una forte predisposizione per la solitudine; desidera l’amore ma teme di dare amore per paura di essere ferita; desidera viaggiare, ma teme le certezze insite nel lasciare la propria casa. (…) Non c’è da stupirsi se sono così poche le persone che riescono ad intravedere anche solo una fugace parvenza di pace interiore. La meditazione quotidiana scioglie un po’ alla volta questo groviglio. Separa i vari fili intricati del desiderio e li allinea l’uno accanto all’altro per concentrarli su un obiettivo per volta, come un filo si inserisce agevolmente nella cruna dell’ago dopo che i capi sono stati riuniti in un’unica punta.[5]
Come già sottolineato da D. Goleman nei primi anni ’70, quindi, la pratica della meditazione si traduce nella minore incidenza di ansietà, di problemi psicologici, disordini psicosomatici, di raffreddori, mal di testa, insonnia. La persona ansiosa affronta i normali eventi della vita come se fossero crisi. Ogni minimo avvenimento aumenta la sua tensione, ed essa a sua volta ingigantisce un banale evento successivo come una scadenza, un colloquio importante, l’appuntamento con il medico, fino a farlo sembrare un pericolo (…) [6].
Riferimenti:
[1] Swami Rama, R. Ballentine, Swami Ajaya, Yoga e Psicoterapia, Roma, Mediterranee, 2003, pag. 157-158
[2] D. Goleman, Meditation and Stress Reactivity, tesi di Laurea, Harvard University, 1973.
[3] D. Goleman, La Forza della meditazione, Milano, Rizzoli, 2003; cit. pag. 187 – 190
[4] Aforismi Yoga di Patanjali, cura di Swami Prabhavana e C.Isherwood, Mediterranee, 1984, c.1, aforisma 15
[5] Swami Kriyananda, Io amo meditare, Assisi (PG), Ananda Edizioni, 2002, cit. pag. 32-33
[6] D. Goleman, La Forza della meditazione, Milano, Rizzoli, 2003; cit. pag. 190
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