‘Ciò che conta è esistere,
ed è più raro di quello che si creda.
Avere un compito quotidiano e svolgerlo bene;
e nello stesso tempo prestare attenzione
a ciò che avviene dentro di noi,
oltre che all’esterno,
essere coscienti della vita in tutte le sue forme,
in tutte le sue espressioni.
Seguire le grandi regole,
ma anche dare libero corso agli aspetti
meno conosciuti del nostro essere’.
(C.G. Jung, 1959)
All’interno della sua immensa opera, di ricerca e divulgativa, lo psichiatra C.G. Jung ribadisce costantemente, con una fermezza che rasenta l’intrasigenza, quanto sia importante per ciascuno Realizzare la propria ‘Individualità’, il proprio ‘germe di vita’ e quindi, la propria ‘Unicità’, trovando le Risorse Interiori necessarie per lasciar andare il bisogno di amalgamarsi alla moltitudiune indifferenziata della massa.
Tuttavia, per attraversare il processo che Jung definisce ‘Individuazione’, sino al compimento effettivo della propria Autorealizzazione, occorrono Risorse extra – ordinarie di cui, peraltro, ciascuno è naturalmente dotato già in quanto Essere Umano.
Jung è stato tra i primi, lungimiranti e avanguardisti, studiosi di matrice scientifica a sostenere la Valenza Strategica dello YOGA, nonché dei fondamenti filosofici orientali, nel Sentiero verso la propria Autorealizzazione e quindi nel progressivo recupero di quelle Risorse extra – ordinarie che occorrono per diventare un Individuo Autentico.
Nelle 1932, presso il Club psicologico di Zurigo C.G. Jung dedicò quattro conferenze all’interpretazione psicologica del Kundalini-yoga, evidenziando l’Importanza Strategica della pratica dello Yoga ai fini di perseguire il Fine Essenziale della Vita Umana,e gettando al contempo un ponte concreto tra la psicologia occidentale ed il pensiero orientale:
C’è una quantità di persone che non sono ancora nate.
Sembra che siano qui e che camminano ma, di fatto, non sono ancora nate perché si trovano al di là di un muro di vetro,
sono ancora nell’utero.
Sono nel mondo soltanto provvisoriamente e presto ritorneranno al pleroma da cui hanno avuto inizio.
Non hanno ancora creato un collegamento con questo mondo;
sono sospesi per aria, sono nevrotici che vivono una vita provvisoria.
Dicono: “Adesso sto vivendo in queste condizioni.
Se i miei genitori si comportano secondo i miei desideri, ci sto.
Ma se dovessero mai fare qualcosa che non mi piace, allora tiro le cuoia.”
Questa, vedete, è la vita provvisoria: una vita condizionata, la vita di qualcuno che è ancora collegato al pleroma,
il mondo archetipico dello splendore, da un cordone ombelicale grosso come una gomena da nave.
Bene, nascere è importantissimo;
si deve venire in questo mondo, altrimenti non si può realizzare il Sé, e fallisce lo scopo di questo mondo.
Se questo succede, semplicemente si deve essere ributtati nel crogiuolo e nascere di nuovo. […]
Vedete, è di un’importanza assoluta essere in questo mondo, realizzare davvero la propria “entelechia”,
il germe di vita che si è, altrimenti non si può mai mettere in moto Kundalini e non ci si può mai distaccare.
Si viene ributtati indietro e non è successo nulla, è un’esperienza assolutamente priva di valore.
Si deve credere in questo mondo, mettere radici,
fare del proprio meglio, anche se bisogna credere alle cose più assurde. […]
Si deve infatti lasciare qualche traccia di sé in questo mondo, che certifichi che siamo stati qui, che qualcosa è successo.
Se non accade nulla del genere, non ci si sarà realizzati;
il germe di vita è caduto, per così dire, in uno spesso strato d’aria che lo ha tenuto sospeso.
Non ha mai toccato il suolo, e quindi non ha potuto produrre la pianta.
Se invece si entra in contatto con la realtà in cui si vive, vi si rimane per diversi decenni e si lascia la propria impronta,
allora può avviarsi il processo di impersonale.
Vedete, il germoglio deve sbocciare dalla terra, e se la scintilla personale non è mai entrata nella terra,
da lì non uscirà nulla, non ci saranno né “linga” né “Kundalini” perché si è ancora nell’infinità che c’era prima.»
(C.G.Jung – La Psicologia del Kundalini Yoga, 1932, Bollati Boringhieri, cit. pp.75-76)